CAP. 1: IL SECOLO DI EUSEBIO
1.2 Il pensiero politico dell’età eusebiana
Certamente il Cristianesimo ha subito immediatamente dei riflessi politici. Fin dai primi documenti cristiani emergono affermazioni di indubbio carattere politico. Si rilevano la non immediata politicità del movimento e dei suoi testi fondamentali, cui consegue la fluidità del rapporto fra cristianesimo e politica, e la mancanza di trattazioni politiche organiche ampie e diffuse.
Nel IV secolo questo magma porta in primo piano alcuni problemi politici di grande momento. Alcuni motivi della riflessione politica discussi nel secolo di Eusebio sono destinati a grandi sviluppi nei secoli venturi fino al medioevo. In particolare, in questo secolo iniziano ad affiorare i motivi essenziali della futura dottrina della teocrazia papale che troveranno pieno sviluppo molti secoli dopo. Innanzitutto, questa elaborazione politica si muove in un ambiente ancora romano ed è opera di uomini romani ancora fortemente legati alla tradizione, al pensiero, alla cultura, alla mentalità romani. Inoltre, il ragionare politico del IV secolo è complicato dal fatto che alcune affermazioni fondamentali sono quanto mai ambigue nella realtà dei fatti e della prassi politica. Ambiguità nella prassi che non può che creare e produrre infinite e gravissime incertezze, spesso risolvibili soltanto sul piano della forza o della scelta personale[1].
Fra II e III secolo nella letteratura cristiana sembrano prevalere nettamente le posizioni concilianti nei confronti dell’Impero. Anzi, molto spesso viene riconosciuta all’Impero Romano una funzione positiva e indispensabile nell’economia dello sviluppo della stessa società cristiana. L’essenza di questa prima dottrina politica cristiana è rappresentata dal fatto che la politica esiste soltanto in funzione della religione cristiana; al di fuori del cristianesimo potrebbe essere soltanto un fatto privo di valore. Si intuisce che la politica non è una costante della vita umana. Ci si inizia ad allontanare dalla concezione classica, secondo la quale la politica, la vita sociale e politica sono intimamente umane, sono intrinseche alla natura dell’uomo.
Il contrasto fra Ambrogio di Milano e gli imperatori Valentiniano II e Teodosio è un fatto ben noto del IV secolo. Relativamente agli avvenimenti cruciali in cui il contrasto si mostra in tutta la sua drammaticità, Ambrogio ci offre autenticamente il suo pensiero in alcune lettere. Al principio del 385 le autorità civili di Milano chiedono al vescovo Ambrogio di cedere una basilica agli eretici ariani, affinché anche costoro possano celebrare la Pasqua. Nella controversia che ne consegue e che dura circa un anno, Ambrogio si oppone e, con l’aiuto dalla popolazione, ha la meglio. Tre anni dopo a Callinico i cristiani istigati dal vescovo hanno bruciato la sinagoga e, contemporaneamente, un gruppo di monaci ha distrutto il luogo di riunione degli eretici valentiniani. L’imperatore Teodosio ordina che la sinagoga sia ricostruita a spese del vescovo e che sia iniziato il procedimento giudiziario contro i monaci. Anche questa volta Ambrogio la spunta: né risarcimento né processo. Nel 390 a Tessalonica la folla imbestialita massacra il magister militum Butheric per aver arrestato un fantino delle corse del circo. Teodosio reagisce duramente, perché la violenza della folla rischia di mettere in crisi i patti e gli accordi fra l’Impero e i contingenti barbarici, che avevano accettato di servire Roma. Ambrogio chiede all’imperatore di fare penitenza pubblica e la spunta per la terza volta: Teodosio entra in chiesa da penitente e Ambrogio lo riammette nella comunità dei fedeli.
Esaminando questi tre episodi di scontro, ricordiamo che, secondo quanto asserisce Carl Schmitt in materia di sovranità nel suo fondamentale saggio Teologia politica del 1922, è sovrano colui che decide dello stato di eccezione. Questa definizione è appropriata al concetto di sovranità come concetto limite, relativo alla sfera più interna. A ciò corrisponde il fatto che la sua definizione può applicarsi ad un caso limite. Stato d’eccezione va inteso come un concetto generale della dottrina dello Stato. Il fatto ha una ragione sistematica, di logica giuridica. Infatti, la decisione intorno alla eccezione è decisione in senso eminente. La prova dell’esistenza di uno stato di emergenza non può essere giuridica. Qui sta il problema. In generale è un’espressione del liberalismo dello Stato di diritto e disconosce il significato autonomo della decisione. Il caso d’eccezione può al massimo essere indicato come caso di emergenza esterna, non con riferimento alla situazione di fatto. Solo questo caso rende attuale la questione relativa al soggetto della sovranità. Non si può affermare con chiarezza incontrovertibile quando sussista un caso d’emergenza, né si può descrivere dal punto di vista del contenuto che cosa possa accadere quando realmente si tratta del caso estremo di emergenza e del suo superamento. Il presupposto e il contenuto della competenza sono qui necessariamente illimitati. Anzi, dal punto di vista dello Stato di diritto non sussiste qui nessuna competenza. La costituzione può al più indicare chi deve agire in un siffatto caso. Se quest’azione non è sottoposta a nessun controllo, il sovrano è colui che decide sul fatto se sussista il caso estremo di emergenza e sul fatto di che cosa si debba fare per superarlo. Egli sta al di fuori dell’ordinamento giuridico normalmente vigente e, tuttavia, appartiene ad esso poiché a lui tocca la competenza di decidere se la costituzione in toto possa essere sospesa. Tutte le tendenze del moderno sviluppo dello Stato di diritto concorrono ad escludere un sovrano in questo senso[2].
In tutti e tre i casi Ambrogio decide in modo autonomo, mediante una sua esclusiva manifestazione di volontà, che è il momento di intervenire nel dominio del temporale. Nel primo episodio è Ambrogio stesso a decidere della legittimità del proprio intervento. L’intervento avviene per decisione dello stesso Ambrogio, giudice della legittimità del suo proprio agire. Ambrogio afferma ripetutamente che tutto ciò che riguarda la chiesa deve essere deciso dai vescovi e che l’oggetto del contendere è questione di chiesa. Ambrogio nel suo discorso contro Aussenzio e contro la cessione della basilica agli ariani non dà alcuna motivazione della sua dichiarazione, cosicché l’ambito di applicazione del principio resta indeterminato fino a quando non viene delimitato e individuato dalla volontà discrezionale dello stesso Ambrogio. Analogo è il caso della sinagoga di Callinico, nel quale è più evidente la competenza giuridica dell’autorità civile. Eppure, nelle sue dichiarazioni non si trova mai una precisazione sul perché queste siano faccende di sua competenza e penitenza. Nel terzo episodio, il più significativo, Ambrogio si pretende arbitro insindacabile del decidere che le regole normali del potere imperiale sono sospese, perché l’imperatore ha travalicato nel campo morale. L’intervento di Ambrogio opera ed ha effetti nel campo della legittimità del governante. Il suo agire è attentamente coerente ed organico nel conseguimento di un fine ben chiaro e prestabilito: la libertà per la chiesa che diventa subito il predominio della Chiesa[3]. Si riscontra nell’agire e nel pensare di Ambrogio l’idea che il potere spirituale ha una dignità e una forza intrinsecamente superiori a quella di ogni possibile potere temporale. La legge terrena è così ridotta a mera costrizione. A giustificare e spiegare l’agire di Ambrogio sta l’idea che la politica sia necessaria soltanto perché nel mondo esiste il male. Ma, affinché il male della forza sia accettabile, occorre che la forza sia usata sotto la guida del sacerdote, di colui che meglio dei governanti temporali sa che cosa è bene per la comunità dei credenti. Il giudizio finale sullo stato d’eccezione appartiene al sacerdote, perché egli è in possesso di un potere che è più alto in quanto derivante dal bene. Ambrogio può decidere quali atti di Teodosio rientrino sotto la sua giurisdizione ecclesiastica[4]. Sulla base di quanto detto, risulta che il vero sovrano è il sacerdote, più tardi sarà il pontefice, nel quale, almeno in Occidente, tutta la chiesa è riassunta. Diversa sarà la situazione orientale e, ancor più, quella tardo-medioevale con l’emergere degli Stati. Ambrogio impedisce a Teodosio di svolgere le sue funzioni di imperatore, mette in dubbio la sua capacità di esercitare funzioni pubbliche in quel momento in cui è un peccatore che non ha ancora espiato. Lo considera sospeso[5]. Essere in grazia di Dio è la condizione che deve essere valida e dimostrata in ogni istante della vita del governante e dell’esercizio del suo potere. Appare chiaramente che il sacerdote pretende di intervenire nel temporale a causa del peccato commesso dal governante. Ma unico giudice di questa condizione di grazia è il sacerdote, che è allo stesso tempo parte in causa e giudice superiore. Ambrogio nega a Teodosio la qualità di cristiano in grazia e gli impedisce di partecipare a quei sacri riti, che sono poi parte essenziale e irrinunciabile del suo stesso essere imperatore e del suo svolgere le funzioni di imperatore.
Inizia qui l’uso politico della scomunica o, quanto meno, con forti conseguenze politiche. Per essere veramente certi della legittimità e correttezza del proprio agire i governanti devono procedere secondo le indicazioni del sacerdote. Un altro passo verso la teocrazia è stato compiuto. Evidentemente la situazione di fatto e i diversi rapporti di forza hanno svolto un gran ruolo e gli sviluppi maggiori del pensiero del quale si è parlato verranno quando Roma sarà lontana nel tempo e dimenticata come tradizione politica[6].
NOTE:
[1] Cfr. A. Petrusi, La concezione politica e sociale dell'Impero di Giustiniano, in Storia delle idee politiche e sociali, diretta da L. Firpo, II: Ebraismo e cristianesimo. Il Medioevo, tomo I, Torino 1985, 540 ss.
[2] Cfr. C. Schmitt, Teologia politica Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, traduzione in Le categorie del 'politico', a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna 1972, 20 ss.
[3] Cfr. S. Mazzarino, Storia sociale del vescovo Ambrogio, Roma 1989, 10.
[4] Riguardo ai Donatisti si veda la posizione di Ottato di Milevi, Traitè contre les Donatistes, Parigi 1985.
[5] Cfr. Ambrogio di Milano, De obitu Theodosii, 33, in Orationes funebres, a cura di G. Banterle, Milano-Roma 1985, 234-235.
[6] Cfr. C. Finzi, Il pensiero politico dell’età eusebiana, in La Sardegna paleocristiana cit., 153-167.