CAP. 4: L'ATTIVITA' LETTERARIA DI EUSEBIO
Girolamo in De viris illustribus 96 ci fornisce una concisa notizia su Eusebio di Vercelli:
Eusebius, natione Sardus et ex lectore urbis Romae Vercellensis episcopus, ob confessionem fidei a Constantio principe Schytopolim et inde Cappadociam relegatus, sub Iuliano imperatore ad ecclesiam reuersus edidit In psalmos commentarios Eusebii Caesariensis, quos de Graeco in Latinum uerterat, et mortuus est Valentiniano et Valente regnantibus[1].
In questo breve testo viene ricordata come attività letteraria di Eusebio soltanto la versione in latino del Commentario ai Salmi di Eusebio di Cesarea. Sotto il nome del Nostro sono, invece, giunte tre lettere: le prime due pubblicate rispettivamente dal Baronio e dal Mombrizio[2], mentre la terza è compresa nei Fragmenta historica di Ilario di Poitiers.
La prima lettera si colloca nel contesto della preparazione del concilio di Milano del 355 e in essa Eusebio annunzia il suo prossimo arrivo in questa città. Il presule vercellese aveva collaborato con la delegazione romana, capeggiata da Lucifero di Cagliari, alla missione volta a ottenere dall’imperatore la convocazione di un nuovo e più rappresentativo concilio, al fine di riesaminare la posizione di Atanasio. La missione ebbe successo e il nuovo concilio si tenne a Milano nel 355[3]. In questa occasione l’atteggiamento di Eusebio non fu coerente: egli risultò assente all’inizio dei lavori, probabilmente perché aveva capito che non c’era possibilità di opporre una seria resistenza al forte partito filoariano. A Milano, infatti, i vescovi occidentali convenuti furono facilmente convinti a sottoscrivere la condanna di Atanasio, a eccezione dei tre membri della delegazione romana: Lucifero, il presbitero Pancrazio e il diacono Ilario. Una delegazione del concilio fu inviata a Vercelli per ottenere anche l’approvazione di Eusebio alla condanna di Atanasio. L’imperatore in persona scrisse a Eusebio pressandolo in questo senso. Nella prima lettera Eusebio dichiara che i delegati del concilio non gli avevano chiarito la situazione, così da indurlo a recarsi di persona a Milano. Egli, messo alle strette dall’imperatore, decide di giocare la sua ultima carta nell’assemblea conciliare: la conseguenza fu l’esilio.
La seconda lettera ci trasporta a Scitopoli, prima tappa dell’esilio di Eusebio, dove era vescovo Patrofilo. L’esule ragguaglia i destinatari riguardo alle violenze di cui egli è stato fatto oggetto da parte dei suoi custodi. Questo testo nel suo genere rappresenta un unicum. Grazie ad esso veniamo a conoscere le condizioni di vita dell’esiliato, il quale, benché molto limitato nella libertà di movimento, poteva entro certi limiti ricevere visite e comunicare per lettera con l’esterno. Questa lettera rappresenta il testo più lungo che possiamo con sicurezza attribuire a Eusebio. Poco significativa la terza lettera in cui Eusebio, esiliato in Tebaide, risponde a Gregorio di Elvira elogiandolo per non aver aderito alla fede ariana ed essersi conservato fedele al credo niceno. La lettera ci riporta agli avvenimenti antecedenti agli anni 357-359, che avevano visto Ossio di Cordova sottoscrivere la condanna di Atanasio (357) e i vescovi cattolici convenuti al concilio di Rimini (359) sottoscrivere, per volere dell’imperatore Costanzo, una generica professione di fede che fu avvertita come una prima apertura alla dottrina ariana. Gregorio aveva resistito alle pressioni di Ossio perché si piegasse agli eretici e, rifiutata la comunione di Valente e degli altri capiparte ariani che avevano trionfato a Rimini, era rimasto fedele al credo pubblicato dai padri di Nicea. Eusebio assicura il suo sostegno al collega se vorrà perseverare in questa fede e rifiutare la comunione cum hypocritis. Da questo breve ragguaglio si ricava che il personaggio che capeggia è Gregorio di Elvira, il vescovo spagnolo che fu tra i protagonisti della controversia ariana dal concilio di Rimini fino agli strascichi di fine secolo dello scisma luciferiano[4]. Intransigente antiariano, come tale si fece conoscere in virtù della pubblicazione del De fide. Lo ritroviamo, grazie al Libellus precum, quale leader in Occidente degli scismatici luciferiani. Così contestualizzata, la lettera di Eusebio si presenta come approvazione anticipata dell’atteggiamento intransigente che anni dopo avrebbe assunto Gregorio nei confronti di quanti avrebbero opportunamente sottoscritto la formula di fede di Rimini. Per questo motivo la genuinità della lettera suscita consistenti dubbi. Già Saltet inserì la lettera nel novero dei falsi luciferiani. Sono testi fondamentali, in questo senso, le due lettere in cui Atanasio elogia entusiasticamente Lucifero di Cagliari per il suo intransigente atteggiamento antiariano e la cui falsità è stata ribadita dal Diercks, cui si deve la fondamentale edizione degli scritti di Lucifero. La lettera di Eusebio presenta in sostanza lo stesso contenuto delle due lettere pseudoatanasiane, in quanto approva incondizionatamente l’operato antiariano del leader luciferiano Gregorio di Elvira. Ma Eusebio qui contraddice il comportamento da lui tenuto nel concilio di Alessandria del 362 (in questa occasione approvò i provvedimenti moderati proposti da Atanasio a carico dei firmatari di Rimini, che invece Lucifero non sottoscrisse proprio perché troppo moderati). Questa discrepanza è sufficiente per revocare in dubbio la genuinità della lettera. Inoltre, all’inizio della lettera si allude ad un episodio che guardacaso è ricordato dettagliatamente nel luciferiano Libellus precum. Si rileva, inoltre, la scarsa verosimiglianza di un rapporto epistolare tra due personaggi che spendono fatica e denaro soltanto per scambiarsi complimenti corredati da qualche notizia di modesto significato. In sintesi, in mancanza di elementi significativi che confermino l’attribuzione della lettera di Eusebio a Gregorio da parte della tradizione manoscritta, gli elementi negativi paiono convincere della falsità di questo testo.
Un testo sicuramente autentico e di notevole importanza dottrinale è la dichiarazione in latino che Eusebio prepose alla sottoscrizione da lui apposta al cosiddetto Tomus ad Antiochenos, il testo ufficiale inviato dai partecipanti al concilio di Alessandria del 362 alle comunità cristiane di Antiochia allora discordi tra loro. Nel dichiarare che egli accetta quanto il concilio aveva stabilito circa il significato del termine “ipostasi” e l’accantonamento della professione di fede pubblicata a Serdica nel 343, Eusebio, in una precisazione d’argomento cristologico, afferma di professare che nell’incarnazione il Salvatore Figlio di Dio era diventato uomo e aveva assunto tutto dell’uomo a eccezione del peccato. Si tenga conto che in occasione del concilio alessandrino del 362 fu dibattuta per la prima volta in sede ufficiale la questione sollevata da Apollinare di Laodicea, autorevole sostenitore di Atanasio e suo amico personale, le cui affermazioni sembravano ledere l’integrità della natura umana del Figlio di Dio. Il patriarca alessandrino aveva, perciò, preferito aggirare la questione con una formula, anch’essa ambigua e poco chiara, che per il momento riuscì gradita sia ai sostenitori che agli avversari di Apollinare. Ma ad Eusebio non sfuggì l’insufficienza della dichiarazione di Atanasio: al momento della firma da apporre al documento ufficiale, egli volle precisare la sua personale convinzione in merito alla realtà dell’incarnazione di Cristo e, perciò, dell’integrità della natura umana da lui assunta. Si noti la capacità di Eusebio di orientarsi in una materia tanto complessa e irta di difficoltà.
In merito alla questione riguardante il De trinitate (DT) ps. atanasiano, va ricordato che nel 1664, con questo titolo e attribuendone la paternità a Vigilio di Tapso, il Chifflet pubblicò a Digione una silloge di scritti in lingua latina di argomento trinitario tramandati tutti sotto il nome di Atanasio. Con facilità Ficker dimostrò nel 1897 l’infondatezza dell’attribuzione a Vigilio e il carattere non unitario dell’opera. Da questo momento l’interesse degli studiosi si è concentrato sull’opera in otto libri tramandataci in due redazioni diverse, una brevior e una longior. Soltanto a quest’opera è stato riservato il nome di De trinitate, con varietà di proposte circa la sua attribuzione[5]. Atanasio era appena morto, o forse non ancora, e già cominciavano a diffondersi scritti a lui falsamente attribuiti, in quanto scritti di eretici o, comunque, opere di autori di discussa ortodossia che cercavano di diffondere le loro idee mettendole al riparo di un nome di indiscussa autorità. È difficile immaginare un motivo per cui DT, se effettivamente dettato da Eusebio, sia andato a finire sotto il nome di Atanasio in quasi tutta la tradizione manoscritta. Il nome di Eusebio oggi ci si presenta come un nome di scarso rilievo nel contesto della letteratura antiariana di lingua latina, dal momento che egli scrisse ben poco o niente di specificamente dottrinale. Ma, insieme con Ilario, egli fu a suo tempo il leader della reazione antiariana in Occidente e come tale godette di larghissimo credito, di cui fanno fede molte testimonianze dell’epoca. In questo senso è significativo il silenzio del De viris illustribus di Girolamo: questi, particolarmente interessato a notizie di carattere letterario, avrebbe debitamente ricordato il DT se l’avesse conosciuto come opera di Eusebio. È dunque preferibile limitarsi ad accettare per suo il poco che con sicurezza gli si può attribuire.
NOTE:
[1]Eusebio, sardo di origine e da lettore della città di Roma divenuto vescovo di Vercelli, dopo essere stato esiliato dall'imperatore Costanzo a Scitopoli e quindi in Cappadocia per la sua professione di fede, tornato alla sua Chiesa sotto l'imperatore Giuliano, pubblicò i Commentari ai salmi di Eusebio di Cesarea, che aveva tradotto dal greco in latino. Morì sotto il regno di Valentiniano e Valente (traduzione nostra).
[2] Cfr. V. Bulhart, Eusebii Vercellensis Episcopi quae supersunt, Turnholti 1957, 103-110.
[3]Cfr. Simonetti, La crisi ariana cit., 212 ss.
[4] Cfr. J. Quasten, Patrologia, III, Torino 1978, 61-64.
[5] Circa l'attribuzione dell'opera si veda L. Dattrino, Il De trinitate pseudoatanasiano, Roma 1976, 10 ss.