APPENDICE
I.
TOMUS AD ANTIOCHENOS
Pr. Agli amati e carissimi colleghi nel ministero, Lucifero, Asterio, Cimazio e Anatolio; Atanasio e i vescovi trovatisi ad Alessandria provenienti dall'Italia e dall'Arabia, dall'Egitto e dalla Libia, Eusebio, Asterio, Gaio, Agato, Ammonio, Agatodemone, Draconzio, Adelfio, Ermeone, Marco, Teodoro, Andrea, Pafnuzio, un altro Marco, Zoilo, Mena, Giorgio, Lucio, Macario e gli altri, augurano ogni bene in Cristo.
Siamo convinti che, da bravi ministri di Dio e amministratori, siate capaci di gestire tutti gli affari della Chiesa. Anche a noi è giunta voce che moltissimi, in precedenza separati da noi per spirito di contesa, adesso vogliono fare la pace e che anche molti che hanno dismesso di favorire gli ariomaniti desiderano tornare alla comunione con noi. Per questo motivo abbiamo ritenuto necessario scrivere alla vostra mansuetudine quello che componemmo noi e i nostri amati Eusebio e Asterio, perché anche noi, colleghi nel ministero amati e davvero molto desiderati, siamo lieti di una notizia del genere e preghiamo che, se ancora qualcuno resta lontano da noi e se ancora risulta in conbutta con gli ariani, fugga d'un balzo dalla loro pazzia, di modo che a questo punto tutti dovunque possano dire: «Un solo Signore, una sola fede». C'è qualcosa di così «bello» come dice il salmista, o di così «piacevole come quando i fratelli abitano nello stesso luogo»? Nostra casa è la chiesa e il nostro pensiero deve essere lo stesso. Così infatti crediamo che anche il Signore abiterà con noi, lui che dice: «abiterò e starò con loro» e «qui abiterò, perché l'ho scelta». Ma «qui» dove, se non dove si annuncia una sola fede e religione?
Volevamo venire anche noi dall'Egitto insieme con i nostri cari fratelli Eusebio e Asterio, per molte ragioni, ma soprattutto per questo: per abbracciare la vostra disposizione d'animo e nel contempo per rallegrarci insieme di una pace e concordia così; poiché però, come anche abbiamo esposto nelle altre lettere e potete apprendere dagli stessi nostri compagni nel ministero, gli affari ecclesiastici ci trattengono, ne siamo dispiaciuti ma abbiamo chiesto che i medesimi compagni di ministero Eusebio e Asterio venissero da voi in vece nostra. Ed è grazie al loro timor di Dio, pur potendo tornare alle loro diocesi, hanno anteposto a tutto il venire da voi, a causa della incalzante necessità della chiesa. Avendo costoro consentito, ci siamo sentiti incoraggiati, poiché, trovandosi lì sia loro che voi, tutti riteniamo di trovarci insieme con voi.
Richiamate dunque a voi tutti coloro che vogliono fare la pace con noi e soprattutto quelli che si radunano insieme nella chiesa Vecchia e quelli che provengono dagli ariani, e accoglieteli come fanno i padri con i figli, come maestri e tutori riceveteli; e riuniteli ai nostri cari fratelli in comunione con Paolino e non richiedete loro niente altro se non l'anatema dell'eresia ariana, la professione della fede professata dai padri a Nicea, l'anatema anche di quelli che dicono che lo Spirito Santo è una creatura e separato dalla essenza del Cristo. Questo è infatti distaccarsi davvero dalla detestabile eresia degli ariani: non separare la santa Trinità, né dire che qualcosa di essa è creatura. Coloro infatti che hanno l'aria di appellarsi alla fede professata a Nicea, ma osano parlare male dello Spirito Santo, non fanno altro che rinnegare a parole e tenerla col pensiero.
Da tutti sia anatematizzata l'empietà di Sabellio e Paolo di Samosata, la follia di Valentino e Basilide, il delirio dei manichei; se sarà così, sarà tolto via da tutti ogni sospetto cattivo e solo la fede della Chiesa cattolica sarà mostrata nella sua purezza.
Che abbiamo questa fede noi e quelli che da sempre sono stati in comunione con noi, riteniamo che non lo ignori né uno di voi né un altro. Poiché ci rallegriamo con tutti coloro che vogliono unirsi,ma in modo particolare con coloro che si radunano nella chiesa Vecchia, e già abbiamo glorificato il Signore per tutto e per il buon proposito di costoro, vi esortiamo a che il loro accordo sia a queste condizioni e, come si è detto, nulla più si richieda da parte vostra a quelli che s'incontrano alla chiesa Vecchia e neppure quelli della fazione di Paolino pretendano qualcos'altro ancora rispetto a quanto definito a Nicea.
Il documento di cui taluni vanno dicendo che è stato redatto nella sinodo di Serdica in materia di fede, impedite assolutamente che sia letto o proposto: la sinodo infatti non ha definito alcunché del genere. Alcuni in realtà ritennero opportuno, quasi che ci fosse qualche mancanza nella sinodo di Nicea, di stilare una professione di fede e vi misero mano in modo avventato; ma la santo sinodo riunita a Serdica si irritò e sentenziò che non si stilasse più alcuna professione di fede, ma che fosse sufficiente la fede professata a Nicea dai padri, poiché nulla le manca, anzi è piena pietà; e che non dovesse essere stilata una seconda formula di fede, affinché non venisse considerata incompleta quella scritta a Nicea e non fosse dato un pretesto a quanti vogliono scrivere ripetutamente professioni e definizioni di fede.
Perciò, quand'anche qualcuno adduca questo o un altro scritto, fate cessare questi tali e piuttosto convinceteli a starsene in pace; infatti in loro non abbiamo ravvisato che spirito di contesa. C'erano quelli criticati perché parlavano di tre ipostasi, per il fatto che quei termini non sono scritturistici e per ciòstesso sospettabili. Pretendemmo che non andassero a cercare nulla più della professione di Nicea, e tuttavia a motivo dello spirito di contesa che li animava li abbiamo sottoposti a indagine se, come affermano gli ariomaniti, ritengono le ipostasi tra loro estraniate e straniere, e di essenza estranea l'una dall'altra e ciascuna separata per conto suo, come sono le altre creature e quanti sono generati da uomini, o come differenti essenze, com'è l'oro, l'argento e il rame, così dicono anche loro oppure, come altri eretici affermano tre principi e tre dèi, intendono e chiamano così tre 'ipostasi'. E affermano di non dire né di aver mai pensato così.
Quando li interrogavamo: «come dunque affermate queste cose, o perché mai vi servite di parole di questo tipo?», risposero: «perché crediamo nella santa Trinità, trinità non soltanto di nome, ma veramente esistente e sussistente: il Padre realmente esistente e sussistente, e il Figlio realmente esistente sostanziale e sussistente, e lo Spirito Santo realmente sussistente ed esistente; siamo consapevoli di non aver affermato tre dèi o tre principi, e di non tollerare assolutamente coloro che lo dicono o pensano, ma di sapere che la santa Trinità è una sola divinità e un solo principio, che il Figlio è consostanziale col Padre, come dissero i padri, che lo Spirito Santo non è creatura, né estraneo, ma appartiene alla sostanza del Figlio e del Padre e ne è inseparabile».
Accettata valida l'interpretazione e la difesa di questi termini, esaminammo anche quelli che sono accusati da questi ultimi di affermare una sola ipostasi, per vedere se per caso, come pensa Sabellio, anche loro parlano in modo da eliminare il Figlio e lo Spirito Santo, o che il Figlio sia senza essenza e lo Spirito Santo senza ipostasi. Anche loro ci assicurarono di non dire ciò e di non aver mai pensato così, ma: «diciamo ipostasi pensando che è la stessa cosa dire ipostasi o sostanza; ne pensiamo una sola perché il Figlio deriva dalla sostanza del Padre e per l'identità di natura: crediamo infatti che ci sia una sola divinità e una sola natura di questa, e non che sia una quella del Padre, ed estranee a lui quella del Figlio e quella dello Spirito Santo». Certo anche su questo punto coloro che erano stati accusati di aver parlato di tre ipostasi erano d'accordo con questi altri; e quelli che avevano parlato di una sola sostanza approvavano le dottrine degli altri, nel modo in cui le avevano spiegate, e venivano anatematizzati da entrambe le parti Ario in quanto avversario di Cristo, Sabellio e Paolo di Samosata come empi, Valentino e Basilide come estranei alla verità, Mani poi come inventore di dottrine perverse. Tutti, per grazia di Dio e dopo tali spiegazioni, sono d'accordo unanimamente che è migliore e più esatta di tali termini la fede professata dai padri a Nicea, e che per il futuro è sufficiente usare le sue parole.
Ma anche per quanto attiene al disegno divino dell'incarnazione del Salvatore, poiché anche su questo alcuni parevano in disaccordo tra loro, esaminammo sia questi che quelli, e con ciò che professavano gli uni erano d'accordo anche gli altri: che non come nei profeti «venne la parola del Signore», così prese dimora anche in un uomo santo «nella pienezza dei tempi», ma che proprio il «Logos si è fatto carne» ed «essendo nella forma di Dio, assunse la forma di schiavo»; e diventato anche che è stato generato come uomo per noi da Maria per quanto attiene al suo essere nella carne; e così il genere umano, in modo completo e integrale, in Lui viene liberato dal peccato e da morto qual era riceve vita per essere introdotto nel regno dei cieli. Professavano anche questo, che il Salvatore non ebbe un corpo senz'anima o sensibilità o intelletto. Neppure era possibile che il corpo del Signore fattosi uomo per noi fosse privo di intelletto e in Lui, Logos, la salvezza non fu soltanto del corpo, ma anche dell'anima; ed essendo realmente figlio di Dio è diventato anche figlio dell'uomo, ed essendo figlio unigenito di Dio sempre Lui è diventato anche «primogenito tra molti fratelli». Perciò non era uno il Figlio di Dio prima di Abramo e un altro quello dopo Abramo, né era uno colui che risuscitò Lazzaro e un altro quello che si informava a suo riguardo, ma era lo stesso colui che come uomo diceva: «dove giace Lazzaro?» e che come Dio lo risuscitò; lo stesso colui che col corpo come uomo sputava, e in modo divino come figlio di Dio apriva gli occhi del cieco nato; e pur «soffrendo nella carne», come dice Pietro, tuttavia come Dio apriva i sepolcri e risuscitava i morti. Di conseguenza, pensando così tutto ciò che c'è nel Vangelo, affermarono di pensarla allo stesso modo sull'incarnazione e l'inumazione del Logos.
Dato che ci siamo trovati d'accordo su tutto questo, vi esortiamo: coloro che professano in questo modo e così interpretano le parole che dicono, non giudicateli negativamente e non rigettateli avventatamente, ma piuttosto accoglieteli se cercano la pace e sono in grado di giustificarsi; quelli che non vogliono professare la fede e interpretare in questo modo i termini, ostacolateli e metteteli in imbarazzo perché sospettabili per il loro pensiero. E mentre non acconsentite a questi, consigliate quelli che interpretano e pensano rettamente, di non porsi sotto esame gli uni gli altri, né di «combattere a parole per nessuna utilità» né dimettersi in contese per tali parole, ma di cercare un accordo per un pensiero ispirato a religiosità. Quelli che non ragionano così, ma non fanno altro che attaccar briga per delle paroline di questo tipo e cercano diversamente da quanto fu scritto a Nicea, non fanno altro che «dare da bere al vicino una torbida confusione», come quelli che odiano la pace e amano le divisioni. Ma voi, o amati uomini e fedeli servi e amministratori del Signore, fate cessare e impedite ciò che reca scandalo ed è nocivo, piuttosto vogliate anteporre a tutto una pace a queste condizioni. Se la fede è sana, forse il Signore avrà pietà di noi e unirà quanto è diviso, e se c'è di nuovo un solo gregge, tutti abbiamo una sola guida, il Signore nostro Gesù Cristo.
Noi dunque, sebbene non ci fosse bisogno di ricercare alcunché oltre la sinodo di Nicea, né di attenersi a parole derivate dallo spirito di contesa, tuttavia in vista della pace e per non respingere quelli che intendono credere in modo retto, abbiamo aperto un'indagine, e noi che siamo rimasti in Alessandria insieme con i nostri compagni nel ministero Eusebio e Asterio abbiamo esposto in breve ciò in cui si sono trovati d'accordo: infatti la maggior parte di noi se ne erano andati alle proprie diocesi. Voi da parte vostra leggete la lettera in pubblico, dove siete soliti riunirvi, ed esigete di convocarvi tutti là. È giusto infatti che in primo luogo la lettera sia letta là, e che là si riuniscano quanti vogliono e si adoperano per la pace, e che in seguito, essendosi questi riconciliati, nel luogo che sarà gradito a tutto il popolo dei fedeli, alla presenza della vostra mansuetudine, là sia tenuta la riunione e il Signore sia glorificato insieme da tutti. Salutate tutti i fratelli che sono con voi. Vi salutano i fratelli che sono con me. Io, Atanasio, prego che voi stiate bene e vi ricordiate di noi presso il Signore.
Similmente Agato, Ammonio, Agatodemone, Draconzio, Ermeone, Marco, Teodoro, Andrea, Pafnuzio, Marco e gli altri.
Allo stesso modo hanno sottoscritto anche gli altri vescovi convenuti e i due diaconi mandati da Lucifero, vescovo dell'isola di Sardegna, Erennio e Agapeto, e Massimo e Calemero, mandati da Paolino, anche loro diaconi. Erano presenti anche alcuni monaci del vescovo Apollinare, da lui mandati allo scopo.
Ecco ciascuno dei vescovi predetti, destinatari della lettera: Eusebio della città di Vercelli in Gallia, Lucifero dell'isola di Sardegna, Asterio di Petra in Arabia, Cimazio di Palto, nella Celesiria, Anatolio di Eubea. Mittenti: il papa Atanasio e quelli che si sono trovati con lui in Alessandria, cioé Eusebio di persona e Asterio e gli altri: Gaio di Paratonio della Libia nelle immediate vicinanze, Agato di Fragonis e di parte dell'Elearchia dell'Egitto, Ammonio di Pachnemunis e della restante parte dell'Elearchia, Agatodemone di Schedia e Menelaite, Draconzio di Ermopolis la piccola, Adelfio di Onufis in Licni, Ermeone di Tanis, Marco di Zigra della Libia nelle immediate vicinanze, Teodoro di Atribis, Andrea di Arsinoe, Pafnuzio di Sais, Marco di File, Zoilo di Andro, Mena di Antifra. Dopo questi sottoscrisse anche Eusebio in latino, di cui do la traduzione: Io Eusebio vescovo, mentre voi vi accordate gli uni con gli altri sulla base di un testo rigoroso sulle ipostasi accettato dall'una e dall'altra parte, anch'io ho aderito, nonché sulla incarnazione del nostro Salvatore, che cioè il figlio di Dio si è fatto anche uomo, assumendo tutto fuorché il peccato, così com'era la la struttura del nostro vecchio uomo, ho confermato in conformità al tenore della lettera. E poiché si scarta il documento della sinodo di Serdica perché non paia che si produca un'altra professione di fede rispetto a quella di Nicea, anch'io concordo perché non si vada a pensare che professione di fede di Nicea sia messa al bando per effetto di questo documento, e concordo che il documento non sia da pubblicare. Prego nel Signore che stiate bene. Io Asterio approvo le cose che sono state scritte prima e prego nel Signore che stiate bene.
E dopo che questo testo fu inviato da Alessandria, così sottoscritto dai suddetti, successivamente lo sottoscrissero anche loro. Io Paolino la penso così come ho ricevuto dai padri: c'è un Padre perfetto esistente e sussistente, un Figlio perfetto sussistente e lo Spirito Santo perfetto sussistente. Perciò accetto anche la predetta interpretazione riguardo alle tre ipostasi e all'unica ipostasi o sostanza, e coloro che la pensano così. È infatti conforme a pietà pensare e confessare la santa Trinità in una sola divinità. E a proposito dell'essersi fatto uomo per noi il Logos del Padre, la penso così come è stato scritto, ossia che «il Logos si è fatto carne» secondo Giovanni, non secondo i più empi i quali dicono che egli ha subito un cambiamento, ma che si è fatto uomo per noi, generato dalla santa vergine Maria e da Spirito Santo. Il Salvatore non aveva infatti un corpo senz'anima o sensibilità o intelletto; non era infatti possibile che, se è vero che il Signoresi è fatto uomo per noi, il suo corpo fosse senza intelletto. Pertanto anatematizzo quelli che rifiutano la fede professata a Nicea e che dicono che il Figlio non deriva dalla sostanza del Padre e non è consostanziale col Padre. Anatematizzo anche coloro i quali dicono che lo Spirito Santo è una creatura, venuto all'esistenza per mezzo del Figlio. Ancora anatematizzo l'eresia di Sabellio, Fotino e ogni eresia, conformandomi alla professione di fede di Nicea e a tutto quanto è stato scritto sopra. Io Carterio prego che voi stiate bene. <È di una città della Siria>[1].
II.
EUSEBIO DI VERCELLI
LETTERE
(CCL IX, 103-110)
EPISTULA PRIMA
Eusebius Constantio imp. Augusto salutem.
Ego, clementissime imperator, videns animum deo devotum hoc cupere, quemqdmodum per orbem terrarum firma pax ecclesiastica permaneret, satis cum gaudio litteras tuas accepi. Suscepi etiam litteras fratrum et coepiscoporum meorum, quibus hoc intimare dignati sunt, ut plena mihi ratio per ipso quos miserant redderetur et sic facerem quod volebant.
Sed quia pleniter mihi ratio reddi non potuit et debui clementiae tuae parere, hoc necessarium duxi, ut Mediolanum venire properarem. Quicquid domine imperator, cum in praesentiam venero iustum fuerit visum et deo placitum, id me factum promitto.
Deus te custodiat, gloriosissime imperator.
EPISTULA SECUNDA
Dilectissimis fratribus et satis desideratissimis presbyteris, sed et sanctis in fide consistentibus plebitus Vercellensibus, Novariensibus, Eporediensibus nec non etiam Dertonensibus Eusebius episcopus in domino aeternam salutem.
Licet nos multis dominus noster a vobis corpore separatos foveret bonis et vestram admodum in adventu et visitationem plurimorum fratrum nobis praesentiam exhibere, tamen maesti ac tristes et sine lacrimis non eramus, quia longo temporis intervallo vestrae sanctitatis non accipiebamus scripta. Verebamur enim, ne qua vos aut accepisset diabolica subtilitas aut potestas humana infidelibus subiugasset.
His ergo dum afficimur cogitationibus et omnem consolationem fratrum., qui ad nos e diversis veniebant provinciis, ad dolorem magis absentiae vestrae quam ad laetitiam verterem, hoc praestare dignatus est dominus, ut id, de quo eram sollicitus, non solum litteris sinceritatis vestrae, sed et praesentiae charorum nostrum Syri diaconi et Victorini exorcistae cognoscere potuerim.
Agnovi itaque, fratres carissimi, vos, ut desiderabam, esse incolumes, et quasi subito raptum omni longiquitate terrarum, ut Habacuc factum est, qui per angelum portatus fuit usque ad Danielem, sic me iudicavi ad vos pervenisse. Dum singolorum litteras accipio dumque sanctos animos vestros et amorem in scriptis vestris percurro.
Miscebantur mihi cum gaudio lacrimae et avidus ad legendum animus occupatione lacrimarum tenebatur; et erant utraque necessaria, ut singuli sensus in hoc complementum desiderii sua dilectionis officia cuperent praevenire.
Sic per dies in hoc occupatus vobiscum me fabulari iudicans praeteritos labores obliviscebar, ita enim undique circumdabant me gaudia, hinc stabilem fidem, hinc dilectionem, hinc fructum porrigentia, ut in tot tantisque constitutus bonis subito me, ut superius dixi, non in exilio, sed vobiscum esse iudicarem.
Gaudeo itaque, fratres charissimi, de fide vestra, gaudeo de salute quae fidem sequitur, gaudeo de fructibus, quos non solum illic constituti<s>, sed et longe porrigitis; ut enim agricola arbori bonae inseruit illi, quae fructuum causa non securim patitur, non ignibus mancipatur, ita et nos vestrae sanctitati non solum servitium secundum carnem volumus et cupimus exhibere, sed animas nostras pro vestra salute impendere.
Exstendistis, ut dixi, firmos cum fructu ramos et per longa terrarum spatia ad me pertingere laborastis. Gaudeo agricola et libens vestri laboris poma decerpo, quia tantum facere voluistis; nec solum ego vel qui mecum sunt sanctissimi nostri presbyteri et diaconi vel ceteri fratres, sed et omnes, qui desiderantes sumus.
Replestis enim, ut apostolus beatissimus dicit, viscera mea, cum complestis mandata divina, quae complere decebat Christianos in episcopum vel ecclesiasticos viros, quos in exilio fidei causa nostis laborare; xomplestis, quae oportebatfratres fratribus facere et patri filios exhibere.
Sed cum nos secundum mandata divina, vobis volentes de terrenis caelestes, de caducis stabiles, de fragilibus sempiternos fructus facere, coepimus per necessitatem patientes quotidie seminare, gaudebant de vestris fructibus pauperes, glorificabant deum non solum civitatis ipsius homines, sed et omnes, qui aut videre aut audire potuerunt, quantam mecum dilectionem haberetis, ex ipsis fructibus videntes glorificabant deum et omni nos honore cum vestra benedictione nominabant.
Videns hoc diabolus, innocentiae hostis, iustitiae inimicus, contrarius fidei, quia in hoc opere benedicebatur deus, inflammavit adversum nos Ariomanitas suos, qui iam longo tempore suspirabant non solum de hoc opere, sed et de sua infidelitate, ad quam nos persuadere non poterant, ut existerent violenti, more hoc, quo semper est usus, ut, quos persuadere non poterat, vi et potestate terreret.
Congregavit itaque suorum multitudinem, qui nos ad officinam infidelitatis suae rapiunt et cludunt et totam hanc potestatem traditam sibi ab imperatore illis ostendere volui, quia nihil erant quae poterant, dum tacens ut carnificibus corpus tradidi, quod donimus dicebat posse in persecutionibustradi.
Quam libero autem fuerim animo, dum ab ipsis patior et recludor et per quatriduum servor et diversorum increpationes et persuasiones audio, in hoc ostendi, quia nec unum sermonem dixi. Addere voluerunt ad malitiam suam, ut a me cessarent fratres, id est presbyteri et diacones; sed et ceteros discebant se esse prohibituros, ne ad me accederent. Ego ne ab infidelium manibus vel potius transgressorum (quod deterius est) infidelium, ut apostolus dicit, manducarem cibum, libellum ad ipsos hoc more feci.
«Servus dei Eusebius cum conservis suis, qui mecum fidei causa laborant, Patrophilo custodi cum suis.
Quae me vi multorum et furore non solum tractum per terram, sed interdum nudato corpore supinum portastis de hoc hospitio, quod mihi per vestros et agentes in rebus dedistis, e quo numquam nisi ninc vestra violentia egressus sum, et agentes in rebus dedistis, e quo numquam nisi nunc vestra violentia egressum sum, et deus scit et civitas novit nec vos hic et in futuro negare potestis.
Ideo deo causam reservo, ut, quemadmodum ipse ordinaverit, finem possit accipere. Interim me hoc decrevisse sciatis, ut ratio [nunc] et in futuro et hic possit stare, in hospitio, quo me clausum tenetis, in quo me post primam portationem retrudentes crudelius ausi fuistis inde eodem modo portare et in unam cellam reicere, non panem manducaturum neque aquam bibiturum, nisi ante singuli professi fueritis non solum verbo, sed et manu vos non prohibituros fratres meos, qui mecum haec fidei causa libenter patiuntur, de hospitio quo manent, necessarias escas offerre nec eos, qui me dignati fuerint requirere.
Oportuerat quidem exire de corpore, ne tantum scelus, quod contra ius divinum et publicum commisistis, saepe scire volentibus cogerer dicere; sed ne quis de infidelibus vos in nobis crudeles appellet et ignorantes divina praecepta putet nos confusionem potius vitare voluisse quam domino parere, ideo hoc voluisse praesumere, iterum dico, quod, nisi professi et verbo et conscriptione fueritis, eritis homicidae prohibendo.
Novit hoc omnipotens deus, novit et eius unigenitus inenarrabiliter de ipso natus filius, qui salutis nostrae causa deus sempiternae virtutis hominem imperfectum induit, patui voluit, morte triumphata tertio die resurrexit, ad dexteram patris sedet venturus iudicare vivos et mortuos, novit et spiritus sanctus, testis est ecclesia catholica, quae sic confitetur, quia non ego in me reus ero, sed vos, qui conservos meos necessaria ministraturos prohibere voluistis.
Et si hoc putaveritis vos debere conemnere, non quasi mortem timentem, sed ne post excessum meum dicatis me voluntaria morte exire voluisse et quandam nobis nebulam accusationis inveniatis, conventurum me scitote ecclesias, quas clausus interim litteris possim pertingere, converturum et dei servos, ut in ipsis concurrentibus orbis terrarum, quid fides integra, quae ab universis catholics episcopis comprobata est, ab Ariomanitis patiatur, quos ante damnavit, possit agnoscere.
Item subscripsi ego Eusebius episcopus. Adiuro te, qui has litteras legeris, per patrem, filium et spiritum sanctum, ut non supprimas, sed alii legendas tradas.»
Hi ergo vix quarta die ad hunc libellum mitigati ieiunos ad hospitium, in quo manseramus, revertere nos compulerunt. Viderunt interea, quemadmodum nos revertentes populi cum gaudio susceperunt, lucernis nostrum hospitium circumdederunt.
Coepimus annuente domino iterum egentibus ministrare; non hoc sustinuit ipsorum inhumanitas et nostrum amorem in suum odium perdiderunt.
Vix fere viginti et quinque toleare potuerunt dies: erumpunt denuo et cum perdita multorum manu ad nostrum hospitium veniunt armati fustibus, per aliena claustra parietem rumpunt et ad nos violenti perveniunt, iterum rapiunt et arctiori custodia cum solo charissimo Tegrino presbytero recludunt.
Nostros quoque fratres, id est presbyteros et diacones omnes rapiunt et includunt, post triduum potestate sua per loca diversa in exilium mittunt; alios fratres, qui ad nos venerant visitandos, in carcere publico mittunt, per plurimos dies reclusos tenent. Advolantes iterum ad hospitium omnia quae aut in sumptu aut pauperibus fuerant comparata, diruunt.
Sed quia hoc publicum ipsorum facinus ab omnibus civibus notabatur, argumento hoc usi sunt, ut aliqua redderent leviora et se nobis nostra reddidisse iactarent; sumptus vero apud se tenerunt. Et post tantum scelus quaerebant, si fieri posset, sic necare, ut nullum de meis ad me venire permitterent, qui escas corpori necessarias afferent; vix sexta die clamantibus sibi diversis unum venire permiserunt.
Quantum ad se fuit, ostenderunt homicidae animos. Quem primum, ne a malignitate cessarent, quarta die dimiserunt; postmodum sexta vix deficientibus nobis olim cum victu venire permiserunt. Haec itaque sunt Ariomanitarum opera.
Videte, sanctissimi fretres, si non est persecutio, dum valde etiam deterior sit quam illa, quae fiebat per hos, qui idolis serviebant! Illi mittebant in carcerem, non tamen prohibebant ad se venire suos.
Quantum ergo satanas ecclesias vulnerav[er]it per Ariomanitarum crudelitatem! In custodia publica mittunt, qui liberare debent, violentiam faciunt, qui, ut patiantur iustitiae causa, discunt, aliena diripiunt, qui, sua direpta ne repetant, de divina lege docentur, praetereo, quanta illos invasit crudelitas, dum facultatibus temporalibus gaudent.
In carcere latronibus clausis a quaestionariis vel a iudicius non denegatur videndi suos: a nobis et nostri prohibentur, et devoti fratres ne veniant, non solum ab hospitio arcentur quo tenemur, sed ne adeant, carcerum comminatione terrentur.
Sic cunctos subiugaverunt, ut manifestissime agnoverim – ab episcopis incipiam -, dum honorem quidam timent amittere, ipsos fidem perdidisse, dumque facultates terrenaz et immunitates nolunt perdere, caelestes thesauros et veram securitatem nullam iudicasse.
Sic quoque ducti ceteri, dum episcopos haec timentes perdere vident, amare coeperunt, quae semper habere non possunt.
Sic Ariomanitae divites terrent, dum ipsis proscriptionem minantur, sic pauperes, dum potestatem in carcere recludendi habent. Et quanta insania est! In loco quo tenemur non solum viros ullo divino timore in custodia publica recludunt.
Sed ut gavisi non sunt seniores mali, qui pudicitiam Susannae violare quaerebant, ita nec hi gaudebunt semper, qui ecclesiam persecutione varia et depressione nimia suae infidelitati conantur subicere; dixit enim sanctus Daniel ad illos: sic timentes filiae Israel concumbebant vobiscum.
Sed recedat, sanctissimi, humanus timor a vestris animis, cum habeatis domini consolationem, qui dicit: nolite timere illos, qui corpus occidunt, animam autem occidere non possunt. Tempus est probationis, tempus est, ut probati innotescant manifesti. Ideo acceperunt humanum adiutorium, quia divinum non habent; quod si haberent, numquam potestate terrena innocentium sibi animas subiugarent.
Milta de illorum malis, quibus non solus ego, sed plurimi deprimimur, debueramus scribere; sed ne possemus haec facere et ipsorum crudelitatem litteris intimare, arctissima custodia servamur ab ipsis; ideo ad nos et alii nostri et amici prohibentur accedere.
Sed concessit mihi dominus hanc epistolam per charissimum nostrum ad vos Syrum diaconem mittere, quem in potestatem mittendi habui, quia providentia domini nostri eo tempore ad videnda loca sancta accesserat et cum ceteris fratribus inventus non est.
Ceterum vix hanc epistolam quomodocumque conscripsimus, deum semper postulantes nuntium magis laboris nostri quam qualescumque salutationis litteras ferret.
Propter quod satis vos peto, ut cum omni vigilantia custodiatis fidem, servetis concordiam, orationibus incumbatis, nostri memores sine intermissione sitis, ut dignetur dominus ecclesiam suam liberare, quae per universum orbem laborat, et ut nos, qui deprimimur, possimus vobiscum liberati gaudere; quod praestare dignabitur dominus petentibus vobis per dominum nostrum Iesum Christum, qui est secum benedictus a saeculis et in omnia saecula saeculorum. Amen.
Ite[ru]m peto et vos per misericordiam dei rogo, ut unusquisque in hac epistola salutationem suam nuncupet; quia singulis, ut solebam, faciente necessitate scribere non potui, ita in hac vos omnes fratres, sed et sanctae sorores, filii et filiae, omnem sexum appello, omnem aetatem peto, ut hac contenti salutatione nostro obsequio etiam hos, qui foris sunt et nos dignantur diligere, salutare dignemini.
Salutant vos fratres nostri qui mecum sunt presbyteri et diacones, sed et omnes nostri; qui una mecum satis petunt, ut nostri memores omnes vestros nostro dignemini obsequio salutare. Transmisi praetera litteras, quas ad Patrophilumcustodem meum feci, ut ex his agnoscatis nos Ariomanitarum nec minis posse terreri neque ipsorum serpentina blanda subtilitate posse ad ipsorum societatem perduci.
Divinitas vos protregat florentesque vivere et hic et in futuro faciat cum omnibus vestris, fratres charissimi et satis desideratissimi.
EPISTULA TERTIA
Domino sanctissimo fratri Gregorio episcopo Eusebius in domino salutem.
Litteras sinceritatis tuae accepi, quibus, ut decet episcopum et dei sacerdotem, transgressori te Ossio dedici restitisse et cadentibus plurimis Arimino in communicatione Valentis, Ursacii et ceterorum, quos ipsi agnito blasphemiae crimine ante damnaverunt, tuum adsensum denegasse, fidem scilicet servans, quam patres Nicheani scripserunt. Gratulamur tibi in hoc, gratulamur et nobis, quia hoc vivis propositio et hac fide pollens nostri dignatus es meminisse.
Permanenti autem tibi in eadem confessione et nullam cum ypocritis retinenti societatem nostram tibi communicationem promitte. Quibus potes tractatibus, quanto labore praevales transgressore obiurga, infideles increpa nihil metuens de regno saeculari, ut fecisti, quia potior est, qui in nobis est quam qui in hoc mundo.
Nos vero tui consacerdotes tertio laborantes exilio hoc dicimus, quod manifestum esse putavimus, quoniam omnis spes Arriomanitarum non in suo haud unito consensu, sed in protectione pendet regni saecularis, ignorantes scripta, quia maledicti sunt, qui spem habent in hominem, nostrum autem adiutorium in nomine domini, qui fecit caelum et terram.
In passionibus perdurare cupimus, ut, secundum quod dictum est, in regno glorificari possimus.
Dignare nobis scribere, quid malos corrigendo profeceris vel quantos fratres aut stantes agnoveris aut ipse monendo correxeris. Salutant te omnes, qui mecum sunt, mqxime Diaconus, simulque petunt, ut cunctos lateri tuo fideliter adhaerentes nostro digneris obsequio salutare.
[1] Atanasio, Lettera agli Antiocheni, traduzione a cura A. Segneri, Bologna 2010, 81-103.