CAP. 3: EUSEBIO AL CONCILIO DI ALESSANDRIA
3.2 Redazione del Tomo agli Antiocheni e contributo di Eusebio alla questione trinitaria, alla cristologia e alla mariologia
Nel febbraio del 362, Atanasio di Alessandria tornò nella propria città dal suo terzo esilio. Giuliano dal febbraio del 361 aveva emanato il decreto sulla liberazione degli esiliati; Costanzo II era morto il 3 novembre successivo e nel dicembre il nuovo imperatore, dichiaratamente pagano, era entrato a Costantinopoli. Bisognava affrontare il problema del paganesimo tornato sulla breccia e quello dell’unificazione delle forze cristiane ortodosse. Atanasio nella primavera del 362, con un gruppo di vescovi rientrati come lui dall’esilio, radunò un concilio. Benché i membri dell’assemblea fossero perlopiù egiziani, erano presenti anche l’italiano Eusebio di Vercelli e l’arabo Asterio di Petra. Vi erano inoltre i rappresentanti di Lucifero di Cagliari, di Apollinare di Laodicea e di Paolino, il prete a capo delle comunità cristiane esistenti ad Antiochia. La discussione si concluse con la redazione di un Tomo[1], cioè di una lettera destinata ai gruppi cristiani di Antiochia, ma indirizzata a Eusebio e Asterio, i due vescovi delegati, e a Lucifero, Cimazio e Anatolio, i tre vescovi che erano già ad Antiochia. Il documento è considerato opera di Atanasio, anche se esprime il pensiero dell’assemblea. Nel Tomo si trova l’esortazione a ricostruire l’unità e la concordia attorno all’essenziale, ossia quanto stabilito a Nicea. Anche ad Alessandria prevalse il criterio della moderazione nel trattamento da riservare ai vescovi non troppo compromessi con l’arianesimo.
Emerge nel Tomo un accenno alla problematica riguardante lo Spirito Santo, in rapporto alle prime affermazioni dei “pneumatomachi”, detti poi “macedoniani”. Nel documento si rileva una singolare inchiesta dottrinale tra omeusiani (o omoiusiani) e pseudosabelliani; si conclude dicendo che entrambi sono ortodossi se concordi nel dire che la fede confessata dai Padri a Nicea è migliore e più esatta e se in seguito si useranno i termini di quella professione. Il problema trinitario è così risolto mettendo da parte la terminologia discussa e tornando all’ homousios. Un’analoga prospettiva si delinea nella questione cristologica, di cui si colgono le prime avvisaglie dell’apollinarismo. Il problema venne aggirato con formulazioni generiche accettabili da tutti. Il motivo di fondo è costituito dal fatto che non si sarebbe dovuta fare alcuna indagine al di là del concilio di Nicea, né si sarebbero dovute tollerare parole derivanti dallo spirito di contesa. Il Tomo agli Antiocheni per ottenere la conciliazione fu restio ad approfondimenti dottrinali, che pur vennero da altre parti. Tuttavia, il documento ebbe il merito di porre sul tappeto il problema trinitario nella sua globalità, accennando anche allo Spirito Santo, e il problema cristologico, rilevandone la complessità.
Eusebio di Vercelli dovette contribuire in maniera non secondaria alla celebrazione del concilio e alla redazione del documento, il quale alla fine riporta in greco: “Eusebio ha sottoscritto questo documento in romano (scil. latino)”. È interessante confrontare questo piccolo contributo di Eusebio con un’altra sua dichiarazione di fede che è contenuta nel libello di protesta a Patrofilo e inclusa nella seconda delle due lettere sicuramente autentiche, inviate al clero e al popolo della propria diocesi durante l’esilio, fra il 355 e il 360. Da quanto egli scrive nel libello si rileva che al concilio di Alessandria la riflessione sul Padre e il Figlio viene completata dalla dichiarazione di accordo circa le ipostasi; la dottrina dell’incarnazione e della redenzione è approfondita dal riconoscimento che il Figlio di Dio, oltre ad essere divenuto anche figlio dell’uomo, ha anche preso, eccetto il peccato, tutto ciò che costituisce il nostro antico uomo, tale e quale. Infine, la proclamazione della fede della Chiesa cattolica è precisata escludendo il “documento di Serdica”, affinché non si proponga nulla che sia al di là della fede di Nicea. Eusebio di Vercelli dimostrò la propria coerenza di fondo, pur vivendo due momenti molto diversi tra loro e pur sforzandosi di accogliere e assimilare le ragioni degli altri, salva restando la fede di Nicea. Egli si rivelò uomo di tradizione e di dialogo. Dalla lettera alla diocesi si può ricostruire una teologia embrionale della storia, dell’ecumenismo, dei rapporti fra fede, politica e beni terreni, della vita pastorale, espresse mediante una metodologia esegetica a sfondo tipologico e simbolico.
Sulla base di questi presupposti e alla luce di vari elementi convergenti, si potrebbe colmare una piccola lacuna riguardante la mariologia. Nei pochi scritti di Eusebio a noi pervenuti e ritenuti autentici non viene menzionata Maria sotto nessuna forma. Tuttavia, non si può dubitare che anche Eusebio abbia tenuto presente la Vergine Madre di Dio nelle proprie riflessioni teologiche e nella propria pietà. Vediamone di seguito le ragioni.
Eusebio dovette conoscere bene la pietà mariana dei romani e soprattutto l’antico simbolo romano della fede, che proclama Cristo “nato dallo Spirito Santo e da Maria Vergine”. Egli dovette avere qualche notizia dei simboli di fede seguiti a quello di Nicea, che proclamano quasi tutti la nascita di Gesù dalla Vergine Maria. In Egitto dovette venire a contatto con i monaci e con Atanasio e conoscere il titolo theotokos attribuito da molto tempo, in quell’ambiente, alla Madonna. Nello stesso Tomo agli Antiocheni si trova un accenno alla Madonna del tutto coerente con le tendenze teologiche e devozionali di quell’ambiente e di quel momento. Infatti, dalla metà del sec. IV prese avvio il movimento di pietà mariana che condurrà al concilio di Efeso del 431. Lo conferma il fatto che Maria apparve insieme con lo Spirito Santo, nel simbolo di Costantinopoli del 381. Inoltre, apparve un numero sempre più crescente di affermazioni mariologiche in opere di autori orientali e occidentali. Tra gli autori dell’epoca particolarmente importanti per Eusebio ci furono Atanasio di Alessandria, il quale proclama anch’egli Maria theotokos, Lucifero di Cagliari, il quale fa varie allusioni alla Vergine in funzione specificamente antiariana, e Ilario di Poiters, che nel primo dei suoi inni proclama: «O due volte generato per noi Cristo Dio: dal Dio increato nasci, mentre corporeo e Dio la vergine puerpera al mondo ti ha generato». Inoltre, lo stesso diffondersi della vita monastica condusse a valorizzare l’esempio verginale di Maria per le donne e per gli uomini. Riguardo alla mariologia possiamo concludere che non va preso alla lettera quanto Eusebio afferma nella sottoscrizione al Tomo: «Non si aggiunga qualcosa al di là della fede di Nicea». Egli stesso professò quasi certamente la fede in Maria, vera e propria theotokos, e dovette essere tra i primi a praticare la devozione alla Vergine nella vita monastica e nella vita pastorale. Molto probabilmente egli intuì anche la connessione profonda esistente fra la generazione eterna del Verbo dal Padre e la generazione verginale, nel tempo, del Verbo incarnato da Maria[2].
Il 9 febbraio 362 fu pubblicato ad Alessandria l’editto di Giuliano che autorizzava al rientro in sede i vescovi esiliati da Costanzo. Già il 21 dello stesso mese Atanasio era di nuovo ad Alessandria; qui convocò, probabilmente verso maggio, 20 vescovi, in maggioranza egiziani, fra i quali erano Lucifero di Cagliari ed Eusebio di Vercelli, che erano stati destinati ultimamente alla Tebaide. In questa località, insieme con altri della loro “idea”, si riunirono accordandosi per una politica tendente alla restaurazione dell’ortodossia. Ricevuto l’invito di Atanasio, Eusebio si recò ad Alessandria, mentre Lucifero preferì andare ad Antiochia, comunità ortodossa divisa in due gruppi, parteggianti uno per Melezio e l’altro per Paolino. Egli si fece rappresentare ad Alessandria da due diaconi[3].
Del concilio conosciamo le decisioni grazie al Tomus ad Antiochenos. Tale lettera sinodale tocca i principali punti di carattere disciplinare e dottrinale intorno ai quali si sarebbero concentrati negli anni a venire i maggiori contrasti. La lettera vi accenna brevemente in apertura; i dati sono integrati col racconto di Rufino e la lettera di Atanasio a Rufiniano. Prevalse la linea moderata già affermata in Gallia e altrove: soltanto i capiparte e i vescovi più compromessi con l’arianesimo sarebbero stati privati del sacerdozio; invece, i tanti vescovi che avevano sottoscritto perché costretti sarebbero stati perdonati e mantenuti nella dignità sacerdotale, purché confermassero la loro adesione al credo niceno e la condanna delle principali proposizioni ariane.
Ad Antiochia una parte della comunità ortodossa non aveva accettato la deposizione e la sostituzione di Eustazio, avvenuta intorno al 327, e si era staccata dal grosso della comunità facendo parte per se stessa; nel 362 già da molti anni essa era capeggiata da Paolino. Ma buona parte della comunità cristiana era rimasta in comunione con i vescovi, per lo più filoariani, che si erano succeduti dopo Eustazio. Anche se guidati da vescovi con convinzioni più o meno apertamente filoariane, molti ortodossi preferirono restare nelle file della comunità ufficialmente riconosciuta. Al tempo di Leonzio questo gruppo ortodosso era stato bene organizzato dai laici Flaviano e Diodoro, i quali erano riusciti a mantenere una specie di modus vivendi con Leonzio, distogliendolo da atti troppo scopertamente filoariani e proponendo anche importanti innovazioni di carattere liturgico. La situazione fu modificata radicalmente dalla elezione di Melezio a vescovo di Antiochia: dopo tanti anni per la prima volta sedeva sul seggio episcopale della grande città un vescovo moderato di posizioni sostanzialmente antiariane. Melezio fu inviato in esilio nel 361 e gli ortodossi non eustaziani, nuovamente sotto la guida di Flaviano e Diodoro, proposero la riconciliazione con i seguaci di Paolino, che però rifiutarono forse per motivi di carattere personale. La comunità cristiana si trovò divisa in tre gruppi: quello filoariano capeggiato dal vescovo Euzoio, quello paoliniano di rigorosa osservanza nicena e quello meleziano, di fatto il più numeroso e di prevalente tendenza omeousiana. In merito a questo contrasto il concilio prese posizione al fine di ristabilire la concordia e riconosceva nella comunità di Paolino la depositaria della vera fede e della legittima tradizione in Antiochia: i meleziani furono invitati a riunirsi con i partigiani di Paolino, i quali esigettero la condanna dell’eresia di Ario e dei recenti errori sullo Spirito Santo, riaffermando la validità della formula nicena. I punti deboli di questo generico appello erano che si ignorava Melezio e non si teneva conto che con lui era schierata la parte più cospicua della comunità ortodossa; inoltre, mentre il concilio deliberava, Lucifero ad Antiochia, appoggiando Paolino, si adoperava attivamente per rendere ancor più profondo il solco che divideva le due comunità.
Fino alla metà del IV secolo la teologia dello Spirito Santo si era sviluppata in modo molto più desultorio ed elementare rispetto alla grande fioritura, dal II secolo in poi, della teologia del Figlio. Il preminente significato della figura di Cristo nella religione cristiana e la complessa problematica con essa connessa rendono ragione di questo ritardo. Nel II secolo lo Spirito Santo è sentito soprattutto come attività, dono divino che ispira la Sacra Scrittura e santifica il cristiano. Comincia a farsi strada l’idea dello Spirito come persona divina alla pari delle altre due in Atenagora, in Ippolito e soprattutto in Tertulliano, il quale colloca lo Spirito Santo al terzo grado e lo fa derivare dalla sostanza del Padre per opera del Figlio. La stessa concezione si ravvisa in Origene, il quale nello Spirito scorge una creatura creata per opera del Figlio, collocata al terzo posto nella trinità e da lui definito ipostasi. Tale termine riferito allo Spirito Santo è attestato in Ario. A Eusebio di Cesarea si deve un ragguaglio più preciso sulla natura e l’origine dello Spirito Santo: egli lo definisce la prima delle cose create dal Padre per mezzo del Figlio e giunge a negargli la qualifica di Dio, anticipando la posizione degli anomei. Ma l’esempio di Eusebio sembra che abbia avuto un seguito nei suoi più immediati eredi dell’ala moderata del partito eusebiano.
La vera e propria questione sulla natura e l’origine dello Spirito Santo ha inizio intorno al 360 e in modo non chiaro. Socrate e Sozomeno attribuiscono la responsabilità a Macedonio, il quale, espulso nel 360 da Costantinopoli, avrebbe riunito intorno a sé gli omeousiani Eleusio, Maratonio e Eustazio di Sebaste, e avrebbe specificato che lo Spirito Santo era solo servo (διάκονος) e ministro (ὑπηρέτης), di condizione pari a quella degli angeli: i suoi fautori sarebbero stati chiamati Macedoniani, nome ignorato dalle fonti più antiche, che definiscono questi eretici Pneumatomachoi. Mentre il concilio di Roma del 378 distingue i macedoniani dai veri e propri pneumatomachoi, caratterizzandoli genericamente come ariani di fatto, e il canone del concilio di Costantinopoli del 381 condanna gli pneumatomachoi ignorando i macedoniani, in una legge del 25 luglio 383 i due nomi sono affiancati nella condanna. In un primo tempo con il nome di Macedoniani fu indicato un gruppo di omeousiani di regioni vicine a Costantinopoli riunito intorno a Macedonio. Si suppone che proprio nell’ambiente di Macedonio abbia preso consistenza la dottrina che negava la divinità dello Spirito Santo. Ilario informa brevemente sull’insorgere della questione negli ultimi capitoli del De trinitate, donde si ricava che gli avversari proponevano il dilemma circa la creazione o la generazione dello Spirito Santo. Ilario a Costantinopoli venne a conoscenza della nuova questione, la cui origine si deve perciò collocare in quella regione, dove si erano insediati gli amici ed i seguaci di Macedonio. Ilario conferma indirettamente i dati forniti da Socrate e Sozomeno. Rimane aperto il problema del rapporto tra notizia di Ilario e quella che Atanasio fornisce nelle Lettere a Serapione del 360 ca., scritte per confutare una recente dottrina che negava la divinità dello Spirito Santo e di cui il vescovo Serapione di Thmuis aveva informato l’amico ancora rifugiato fra i monaci nel deserto. I sostenitori di questa dottrina, che Atanasio chiama tropikoi (τροπικοί), affermavano che lo Spirito Santo era una creatura (κτίσμα), solo per grado differente dagli angeli, e proponevano anch’essi il dilemma secondo cui se non è creatura è anch’esso Figlio del Padre. La maggior parte degli studiosi rifiuta l’identificazione dei tropici con i Macedoniani e considera gli avversari di Serapione ed Atanasio come esponenti di un movimento all’interno dell’Egitto. La questione dello Spirito Santo fu affrontata nel concilio di Alessandria solo indirettamente, nel contesto delle questioni di carattere disciplinare. Nel De synodis Atanasio aveva esternato l’intenzione di entrare in colloquio con gli omeousiani: egli ritenne opportuno ad Alessandria un chiarimento, al fine di poter convogliare in unità d’intenti tutte le forze antiariane contro i veri eretici. A tal fine Atanasio si sbarazza subito della professione di Serdica; poi propone il chiarimento come risultato di un’inchiesta condotta sull’argomento. Alcuni sostenitori della dottrina delle tre ipostasi sostenevano che nella trinità non si distinguevano solo tre nomi ma un Padre, un Figlio e uno Spirito Santo realmente esistenti e sussistenti, costituenti un solo principio e una sola divinità. Parallelamente interrogati, alcuni sostenitori di una sola ipostasi della divinità avevano chiarito che essi intendevano una ipostasi nel senso di sostanza (ousia) e natura (physis). Condannate da ambedue le parti le eresie di Ario, di Sabellio, di Paolo di Samosata, e proclamata l’eccellenza della fede nicena, gli uni e gli altri erano stati riconosciuti ortodossi. Una decisione di comodo imposta dalla constatazione che si poteva essere ortodossi affermando una e tre ipostasi della divinità, ma che non risolveva il problema del rapporto ipostasi/natura/ousia in Dio: primo importante passo al fine di svelenire la controversia su questo punto.
La cristologia del tipo logos/carne era stata assunta dagli ariani. Tale impostazione cristologica era diffusa in Oriente, soprattutto nell’area influenzata dalla tradizione alessandrina: per tale motivo era stata combattuta in Oriente soltanto da Eustazio di Antiochia, il quale eredita una tradizione che aveva sempre sottolineato l’umanità di Cristo nel rapporto con la divinità e, perciò, la sua integrità. Intorno al 360 questa impostazione cristologica fu sviluppata e approfondita da Apollinare di Laodicea, niceno di provata fede e grande capacità, accanito nemico degli ariani che non aveva avuto vita facile con i vescovi locali Teodoto e Giorgio, dichiaratamente antiniceni[4].
Apollinare aveva maturato il suo pensiero nella difesa della divinità di Cristo contro gli ariani e gli ariani estremi. Egli aveva accettato anche sul piano cristologico il documento uscito dal concilio di Alessandria del 362, dove si affermava che il Salvatore non ebbe un corpo né insensibile né privo di intelletto. La preoccupazione principale di Apollinare era di carattere antiariano. La Confessione di fede, scritta tra il 362 e il 364, e altri frammenti pervenuti, verosimilmente degli stessi anni, mostrano la tensione antianomea nella formulazione del pensiero apollinarista. Le affermazioni caratteristiche dell’apollinarismo sono queste: la natura di Dio è una sola; la generazione del Figlio è sin dall'eternità; tale generazione in nessun modo significa divisione o mutamento della natura divina. Apollinare oppone al problema della generazione all'inizio delle opere di Dio la generazione ab aeterno: il Figlio è fuori del tempo e allo stesso livello del Padre; il Logos incarnato è lo stesso di quello generato sin dall'eternità. Per gli ariani e per Eunomio la generazione nella carne era lo sviluppo logico della generazione prima di tutti i tempi: una sorta di generazione/creazione prima nello spirito e poi nel corpo. Nella dottrina ariana e anomea era perciò naturale lo schema logos/sarx: nell'uomo Gesù il Logos svolge la parte dell'anima; ha assunto solo la carne, il corpo, non l'umanità completa. Apollinare, fermamente convinto della piena uguaglianza divina del Logos generato dall'eternità, si poneva il problema di accompagnare quest'ultima alla salvezza dell'uomo in quanto carne, in quanto corpo, esigenza che Apollinare aveva raccolto dalla tradizione asiatica dei secoli precedenti.
Negli anni '60-'70 del IV secolo, ad Antiochia e in particolare con Diodoro di Tarso, l'affermazione della piena natura divina del Logos portava a distinguere accentuatamente nell'incarnazione ciò che è del Logos divino e ciò che è della natura umana. Apollinare accentuò il tema dell'unità di Cristo fino a parlare di un'unica natura incarnata del Logos Dio. Si noti come in un testo di Apollinare il termine stoico σύγκρασις indichi un tipo di unione in cui le due parti componenti conservano le loro qualità. Un aspetto paradossale di Apollinare è che egli giunge ad adottare il medesimo schema cristologico degli ariani: nel Cristo incarnato il Logos svolge le funzioni che nell'uomo svolge l'anima. Apollinare non si poneva, in partenza, il problema che lo schema cristologico Logos/sarx lasciasse incompleta l'umanità assunta dal Verbo, in quanto era lo schema dello stesso Atanasio.
Negli anni '70 la cristologia di Apollinare si accentuò ulteriormente. L'imperatore Valente insediò vescovi ariani in quante più sedi fosse possibile. La propaganda apollinarista si spinse non di rado e non al di fuori della lotta per le sedi episcopali. Dalle diverse sponde vennero messi in circolazione scritti falsi sotto il nome ora dell'uno, ora dell'altro capoparte, per poterli accusare più facilmente di deviazioni dottrinali. Apollinare veniva fatto passare per un seguace di Sabellio, ossia per un monarchiano; accusa che aveva delle conseguenze sul piano cristologico: o la potenza di Dio ha abitato in un semplice uomo per dono e grazia in modo analogo a quello dei profeti (dottrina di Paolo di Samosata) o il Logos incarnato mostra di essere sostanzialmente diverso dal Dio uno e indivisibile (dottrina degli ariani). Nella difesa da queste interpretazioni e accuse la cristologia di Apollinare si rafforzò e si accentuò. Egli riaffermò il suo consenso alle condanne ufficiali del 268 contro Paolo di Samosata e scrisse contro i sabelliani. In seguito alla morte di Atanasio (373), sul seggio di Alessandria venne insediato il vescovo ariano Lucio e undici vescovi egiziani vennero esiliati a Diocesarea di Palestina. Apollinare diresse a questi vescovi una lettera, con lo scopo di sostenerli nella fede, il cui testo presenta una cristologia più accentuatamente apollinarista nel senso della adorabilità dell'uomo Cristo, perfetto perché animato dal Logos. La conclusione di Apollinare riprende il tema a lui caro dell'unica generazione del Logos.
La condanna più solenne dell'apollinarismo fu quella del concilio di Costantinopoli del 381. Il Nazianzieno e il Nisseno trovarono più volte sui loro passi gli aggressivi seguaci di Apollinare. In questo contesto si inquadra la confutazione del Nisseno della Dimostrazione dell'Incarnazione divina a somiglianza dell'uomo, l'ampia opera della maturità di Apollinare. La riflessione, ormai centrata sul problema antropologico, mette a fuoco e sviluppa temi di grande importanza e bellezza riguardo alla salvezza dell'uomo operata da Cristo. La libertà come elemento imprescindibile per la salvezza e la salvezza come trasformazione in meglio della natura, con il contributo della libertà personale, sono i due temi principali e intrinsecamente connessi tra loro che offrono una sintesi notevole di antropologia e di soteriologia. Gregorio afferma che l'intelletto è ciò che permette all'uomo di scegliere; questa capacità caratterizza l'uomo ed è il libero arbitrio. L'uomo conosce e vuole, intende e sceglie. Cosicché, benché la natura intellettuale dell'anima dell'uomo è ciò che lo rende tale, egli è un tutt'uno in cui l'agire e l'intelletto, il corpo e l'anima razionale sono intrinsecamente uniti. Per Gregorio, se Cristo non ha preso anche l'anima razionale dell'uomo, questa parte costitutiva della creatura umana non è stata salvata. È tutta intera la natura umana che è redenta, e la redenzione è un germe di trasformazione dal di dentro della creazione intera; l'Incarnazione ha operato nella creazione una cura che però solo la libertà umana può volontariamente assecondare perché giungano alla pienezza della loro espansione.
Per Apollinare la salvezza è inabitazione di Dio stesso nell'uomo in Cristo. Dio è Spirito, e lo spirito è potenza intellettiva (νοῦς). Cristo è definito «uomo celeste», nel senso che con l'anima, quale principio vitale, e il corpo ha in sé lo Spirito che è Dio e che in Cristo costituisce il principio egemonico sostitutivo dell'intelletto (νοῦς) umano. Il genere umano viene salvato mediante l'assunzione (πρόσληψις) della carne, per la quale è naturale l'essere guidata. Ora, essa aveva bisogno di un intelletto immutabile, che la congiungesse a sé senza costrizione. L'unione tra Dio e la natura umana, cioé, si realizza attraverso il Logos che aggiunge a sé, rende parte di sé, la carne umana nell'incarnazione. Anche Apollinare si poneva il problema della libertà umana, ma nei termini secondo cui per salvare l'uomo bisognava cambiare il suo principio egemonico, il suo νου̃ς, schiavo del peccato. Farsi uomo eccetto il peccato significa, per lui, prendere un'umanità senza quell'anima razionale che tende al peccato, sostituendola con il Logos. Per Gregorio, invece, proprio attraverso l'anima razionale dell'uomo passa il germe della salvezza. Da queste idee di fondo emergono, nel Nisseno, alcuni temi molto incisivi nella soteriologia cristiana, come il tema di Cristo primizia della nuova creazione, collegato con il tema del battesimo; teologia del battesimo che il Nisseno trovava elaborata anche in Basilio, nel capitolo XV del Trattato sullo Spirito Santo, in cui essa però è unita all'idea a lui propria della redenzione come «cura» della natura umana e mutamento in meglio verso la vita senza fine. In alcuni scritti il Nisseno descrive come opera dello Spirito Santo il portare a compimento questa «terapia della natura migliore» nella storia del suo insieme[5].
Nel 364 Apollinare era entrato in rapporto con Atanasio, che era di passaggio per la Siria. La loro amicizia si sarebbe rivelata ben salda. Intorno al 360 Apollinare fu eletto vescovo della comunità nicena e, in tal veste, aveva mandato dei monaci a rappresentarlo al concilio di Alessandria. La dottrina cristologica di Apollinare è di fondamentale importanza nel contesto delle controversie cristologiche del IV e V secolo - qui essa ci interessa solo per i riflessi che ebbe nella controversia ariana - , contribuendo a dividere ulteriormente la già lacerata cristianità antiariana d’Oriente. La preoccupazione fondamentale di Apollinare, come di Atanasio, è di carattere soteriologico: soltanto Dio può salvare l’uomo dal peccato e dalla morte assumendo in sé l’umanità. Perché operi, tale assunzione deve essere intrinseca e strettissima; il che, per Apollinare, non si poteva verificare se il Figlio di Dio aveva assunto un uomo completo anche di anima. Ammettendo che il Logos avesse assunto un corpo privo di anima (nous), l’unione risultava quanto mai stretta: una sola natura, nel senso di un solo centro di attività, l’uomo celeste, un composto teandrico, una sola natura del Logos incarnata (σεσαρκωμένη), capace di operare la redenzione grazie alla completa compenetrazione delle componenti umana e divina. In area antiochena fu avvertito subito il punto debole di questa dottrina nell’incompletezza dell’umanità assunta dal Logos. Di qui la polemica fra Apollinare e i paoliniani che il concilio di Alessandria dovette esaminare. La preoccupazione di Atanasio fu di minimizzare il contrasto nella ricerca di una formula che potesse essere accetta ad ambedue le parti; lo spingeva, in tal senso, sia la superiore esigenza di evitare dispersioni e fratture fra gli antiariani, sia la sua personale convinzione in materia cristologica che condivideva in buona parte le esigenze e l’impostazione dell’affermazione di Apollinare.
La formula conciliativa viene presentata come derivante da comune accordo delle parti in contrasto. Sorprende che in essa venga chiaramente affermata l’integrità dell’umanità assunta dal Logos e che i rappresentanti di Apollinare abbiano accettato il termine ἄψυχος che significa anche genericamente “insensibile”. Tutto il concetto è espresso in forma negativa e non meraviglia che i rappresentanti di Apollinare l’abbiano accettato e che anni dopo Apollinare stesso si sia rifatto proprio a questo testo per affermare il suo accordo con Atanasio. Tutti, perciò, furono contenti di questa formula che coerentemente concludeva un testo ispirato alla più rigida chiusura verso gli ariani radicali e indulgente nei confronti dei contrasti che dividevano il partito antiariano[6].
NOTE:
[1] Cfr. E. Bellini, Su Cristo: il grande dibattito nel quarto secolo, Milano 1978, 489-494.
[2] Cfr F. Pierini, Il sinodo di Alessandria del 362: Atanasio ed Eusebio di Vercelli, in La Sardegna paleocristiana tra Eusebio e Gregorio Magno, Atti del Convegno Nazionale di Studi, a cura di A. Mastino - G. Sotgiu - N. Spaccapelo, Cagliari 1999, 379-390.
[3] Cfr. Rufino, Storia ecclesiastica, traduzione, introduzione e note a cura di L. Dattrino, Roma 1986, 116-118.
[4] Cfr. Simonetti, La crisi ariana cit., 359-369.
[5] Cfr. E. Cavalcanti, La cristologia del Trattato contro Apollinare di Gregorio di Nissa, in La cristologia nei Padri della Chiesa, Bessarione 9, Roma 1992, 129-140.
[6] Cfr. Simonetti, La crisi ariana cit., 359-365.